La Dda traccia l’organigramma e l’assetto delle forze messe in campo dalla cosca di Limbadi per non perdere “terreno” nella gestione degli affari. Le redini dell’organismo centrale di controllo nelle mani dei fratelli Pantaleone, Antonio e Giovanni Mancuso.
http://www.gazzettadelsud.it/news//37605/Uomini-e-ruoli-per--.html
Associazione mafiosa. Questo il reato
contestato a 23 indagati su 24, destinatari del provvedimento di fermo
della Dda di Catanzaro emesso nell’ambito dell’operazione denominata
“Black Money”. Ognuno degli indagati si sarebbe adoperato per il
rafforzamento del clan Mancuso, il cui «organismo centrale di controllo»
– così definito dagli inquirenti – sarebbe diretto in qualità di capi e
promotori dai fratelli Pantaleone Mancuso, 66 anni, detto “Vetrinetta”,
Antonio Mancuso, 75 anni, Giovanni Mancuso, 72 anni, tutti
«gerarchicamente sovra-ordinati » rispetto agli altri adepti aderenti,
secondo l’accusa, alla cosca. A sostituire Pantaleone Mancuso nei
periodi di assenza, per carcerazioni o altro, sarebbe stato invece il
figlio Giuseppe, 36 anni, «con compiti decisionali e pianificatori
dell’attività illecita del sodalizio mafioso, anche in relazione alla
gestione del patrimonio accumulato attraverso le attività illecite del
sodalizio». Ad occuparsi della programmazione degli omicidi e dei fatti
di sangue per conto dell’intero clan di Limbadi ci avrebbe pensato
Pantaleone Mancuso, 52 anni, alias “Scarpuni”, arrestato nei giorni
scorsi per l’omicidio di Francesco Scrugli. A programmare invece le
attività estorsive e ad individuare le modalità attraverso le quali
riciclare il denaro sporco sarebbero stati Giuseppe Raguseo, 35 anni, di
Rosarno, imparentato con Cosmo Michele Mancuso, e Agostino Papaianni,
62 anni, di Joppolo, già emerso nelle inchieste “Dinasty”e“Minosse 2”. A
gestire gli affari illeciti, principalmente estorsioni ed usura, della
cosca Mancuso anche in provincia di Catanzaro sarebbe stato poi
delegato, col ruolo di «capo promotore del gruppo», Giovanni D’Aloi, 47
anni, di San Calogero. Di tale gruppo diretto da D’Aloi avrebbero fatto
parte Gaetano Muscia di Tropea, già detenuto per altro, Giuseppe
Costantino, 47 anni, originario di Nicotera ma residente a Vibo, Fabio
Costantino, 36 anni, di Nicotera, Damian Fialek, 36, polacco residente a
Sant’Angelo di Drapia, Antonio Pantano, 56 anni, di Ricadi, Francesco
Tavella, 45 anni, di Porto Salvo. Antonio Maccarone, 34 anni, è stato
invece fermato con l’accusa di aver svolto il ruolo di intestatario
fittizio di beni riconducibili al genero Pantaleone Mancuso (cl. ‘47),
rapportandosi con gli adepti a cosche subordinate ai Mancuso e con
imprenditori turistici, mentre l’imprenditore Antonino Castagna, 63
anni, di Ionadi, già coinvolto nell’inchiesta “Dinasty 2”, avrebbe
svolto per conto di Antonio Mancuso il ruolo di intermediario nelle
operazioni dirette a sottoporre ad estorsione altri imprenditori. A
sovrintendere all’operato dei soggetti della cosca dediti all’usura ed
alle estorsioni ci avrebbe pensato anche Orazio Cicerone, 40 anni,
nipote di Antonio Mancuso, mentre il ruolo di “alter ego” di Pantalone
Mancuso, alias “Scarpuni”, sarebbe stato affidato a Nunzio Manuel Callà,
irreperibile dall’operazione “Gringia”, e preposto a custodire le armi
del clan. Al controllo della zona di Vena di Ionadi per conto di
Giovanni Mancuso avrebbe poi pensato Mario De Rito, 39 anni, di Ionadi,
già coinvolto nell’operazione “Odissea”. De Rito si sarebbe occupato in
particolare del recupero delle somme date in prestito mantenendo diretti
rapporti con gli imprenditori sottoposti al clan Mancuso. Autista di
Giuseppe Mancuso, nonché partecipe al gruppo con funzioni operative, il
ruolo svolto da Antonio Cuturello, 23 anni, di Limbadi, con Leonardo
Cuppari, 39 anni, accusato di essersi poi occupato di far ottenere
finanziamenti alle imprese di Papaianni. Legato a Papaianni e Raguseo
anche Bruno Marano, 32 anni, di San Nicola De Legistis, mentre il ruolo
di “cassiere” degli assegni frutto dei presunti traffici illeciti di
Papaianni sarebbe stato ricoperto da Antonio Mamone, 45 anni, di Tropea.
L’intestatario fittizio delle imprese di cui Papaianni si serviva per
imporre generi alimentari ed altri prodotti (Smecal) viene indicato in
Antonino Scrugli, 37 anni di Tropea, mentre Gabriele Bombai, 43 anni, di
Tropea e Salvatore Accorinti, 39 anni, pure lui di Tropea, vengono
indicati come organici al clan Mancuso con funzioni operative nella
gestione delle attività commerciali e nel “recupero crediti”. In qualità
di «tecnico del Comune di Ricadi», col compito di fornire al clan il
supporto necessario, avrebbe poi agito Giovanni Paparatto, 40 anni,
«occupandosi di tutelare gli interessi delle imprese riferibili al
gruppo, tenendo contatti con professionisti e funzionari per ottenere
vantaggi per le aziende mafiose». Delineati i ruoli degli indagati nel
contesto associativo che ruota attorno al clan Mancuso, reati legati
alla detenzione illegale di armi e munizioni vengono contestati a
Giuseppe Mancuso, Antonio Cuturello, Antonio Campisi (quest’ultimo non
raggiunto dal provvedimento di fermo), Giuseppe Costantino, Orazio
Cicerone, Giovanni D’Aloi, Antonio Pantano. Per tale fattispecie
delittuosa legata alle armi – in prevalenza fucili – la Dda non ha
disposto il provvedimento di fermo. L’apposizione di una catena ed un
lucchetto al cancello della proprietà della famiglia Zoccali di Limbadi,
avvenuta nel 2010, costa quindi l’accusa di violenza privata aggravata
dalle modalità mafiose a Giuseppe Mancuso. Passando alle estorsioni,
aggravate dal metodo mafioso, Antonio Mancuso è accusato di aver
costretto Domenico Polito, padre del collaboratore di giustizia di
Tropea, Eugenio William Polito, 31 anni, a consegnargli 150mila euro o
una villetta già rifinita dopo che lo stesso Polito aveva acquistato un
terreno edificabile a Santa Domenica di Ricadi. L’evento non si sarebbe
verificato per «cause indipendenti dalla volontà dell’autore». Altra
estorsione aggravata dall’art. 7 della legge antimafia viene contestata a
Giovanni Mancuso. In questo caso la vittima, con minacce ai figli e
l’intenzione di “sparargli la casa”, sarebbe stata nel 2004
l’imprenditore di Briatico Giuseppe Grasso, costretto a pagare interessi
usurai per un prestito di 50mila euro erogato dallo stesso Mancuso.
Giuseppe Grasso e la moglie Francesca Franzè sarebbero anche state
vittime di Antonio Mancuso, al quale viene contestato il reato di
violenza privata, aggravata dalle modalità mafiose, in quanto avrebbe
prospettato ai due coniugi «un danno peggiore di quello già prospettato
da Mancuso Giovanni» se solo avessero sporto denuncia per i fatti dei
quali erano vittime.
di Giuseppe Baglivo
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