lunedì 28 gennaio 2013

MALASANITA' E MALASANTITA': UN CASO VIBONESE





A raccontare le storie di malasanità calabrese si perde solo tempo. In pochi ci credono e in molti vorrebbero lasciare correre. Questa regione, così com’è, deve continuare a vivere di sudditanza. Sudditanza e morti ammazzati. Non solo da lupare e nove per ventuno. L’arma, in altre parti d’Italia della salvezza, qui si può anche chiamare bisturi. E il giogo della sanità, del resto, arricchisce da sempre un sistema a doppio binario: medici dentro, medici fuori. Più tutto l’indotto. Che tradotto significa commistioni tra pubblico e privati, mazzieri della politica e registi della ‘ndrangheta. Infine, lasciati come ultimi tra gli ultimi, a spartirsi briciole di una torta che, da buoni cittadini di questa strana Italia spetterebbe loro per diritto e non per dovere, ci sono i calabresi. Quelli comuni, ovviamente. Quelli che agiscono in virtù delle esigenze e meno delle conoscenze. Quelli che altrimenti non saprebbero dove andare perché stare a Milano o a Bologna costa troppo e poi comunque “s’aju u muru, moru u stessu”. Quelli che in Calabria ci può essere anche della buona sanità e quelli che per un appendicite o una coliciste “un ospedale vale l’altro”. Quelli che, a poco a poco, iniziano infine ad avere paura. Paura persino di operazioni banali. Perché in Calabria, i calabresi senza santi in paradiso e cristi a cui pregare, per queste cose ci sono rimasti secchi. In pochi anni, dice la commissione nazionale “errori sanitari”, 70 accertati e 60 presunti. Un triste record minacciato ancora da patti di stabilità e piani di rientro, da uno politica che guarda troppo a spendere meno per poter mangiare di più. Succede questo. Ed è successo veramente. Federica, ad esempio, è morta a sedici anni. “Signora – avevano detto alla madre prima di anestetizzare la figlia – non si preoccupi. Per noi questa è routine”. Poi il black-out, l’imprevisto. “Un respiratore, veloce” gridava il chirurgo alla sua equipe. Ma quel respiratore non funzionava: la spina era staccata. Attimi. Il tuo corpo è senza ossigeno. Federica oggi sarebbe stata all’università. Sarebbe stata una giornalista, una di quelle che sanno raccontare storie. Come quella della sua vicina di casa un po’ strana. Si, proprio la vecchina del piano superiore che, a seguito di un articolo apparso su un giornalino della scuola, aveva deciso di querelarla per diffamazione. Federica oggi sarebbe stata una ballerina. Perché, forse, era ciò che amava di più insieme alla vita. O magari c’è Maria Luisa, madre di tre figli piccoli e vittima, a sua insaputa, di un errore ancora tutto da stabilire. Le dicevano “li a Villa dei Gerani sanno operare bene. E poi, per una colicisti c’è bisognu a vai a Nova Yorka?” Maria Luisa si fidava. O forse sapeva di non potere stare troppo lontano dai suoi figli. Del resto, il marito lavorava tutto il giorno con gli animali e, per lui, stare dietro a quei marmocchi era peggio che andare all’inferno. A Pantaleone piaceva stare tutto il giorno in mezzo alle campagne da solo con cani, pecore e capre. E Maria Luisa questo lo sapeva. “Tre giorni e lei sarà fuori signora”, le dicevano. Poi l’operazione, il viso giallo, i dolori. Tre giorni diventati sette. “Dovremmo spostare sua moglie a Messina”, informavano il marito. “Che fa, la porta lei in macchina?” Ma Pantaleone non  capiva, stava li a guardare quello stimato chirurgo con gli occhi sgranati. Lui era il luminare, mentre umilmente lui riconosceva la sua posizione socialmente inferiore. “Il medico è lui -ripeteva tra se e se – dunque lui sa che cosa sta facendo”. E nell’attesa di decidere se prendersi in carico la moglie o spingere per un autoambulanza ripeteva “perché mi stanno dicendo questo?” “Non si preoccupi, andiamo a Messina per ulteriori accertamenti”. Ma Messina improvvisamente diventa il calvario. Giovanna, 36 anni e quattro operazioni in dieci giorni, muore al policlinico universitario di Germaneto, stroncata da una pancreatite dovuta alle tante infezioni provocate dalle troppe operazioni avute in due settimane per degli errori ancora da capire e accertare. Storie di malasanità. Storie di malasanità in Calabria. E nessuno parla. E forse neanche paga. 

Angelo De Luca

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